È il momento conclusivo dell’anno agricolo, tradizionalmente accompagnata da canti lunghissimi e nostalgici, nello scenario dell’autunno che avanza verso l’inverno: è intrisa della solennità e della drammaticità dell’ultimo raccolto, della fine di un ciclo intrecciata al mese dedicato ai defunti.

Olio e foglie d’ulivo sono anche parte essenziale della liturgia cristiano-cattolica, soprattutto legata al periodo pasquale, e di molte pratiche magico-religiose e terapeutiche della medicina popolare locale. Con l’olio, per secoli, si è letta e sventata l’invidia, o si operavano strofinazioni rituali per salvare le parti malate; le foglie di ulivo benedette, se bruciate, si usavano per tenere lontano il malocchio e per proteggere i bambini.
Cogli l’oliva e cogli l’olivastro, cogli l’oliva e la fronda ci resta”. È l’inizio di un canto per la raccolta delle olive, chiamato ad Arsita e in tutto il mondo contadino dell’entroterra abruzzese “a cojë la livë”, “a cogliere l’oliva”. Le voci delle donne intonavano a turno, una dopo l’altra, la melodia che accompagnava il lavoro manuale, con scale e piccoli rastrelli, nel silenzio della campagna autunnale. Gli abbacchiatori ad aria compressa dominano il paesaggio sonoro contemporaneo, relegando il canto a una dimensione domestica e privata del ricordo e della rievocazione.



“Si cantava quando si lavorava…le olive, le piante dell’olivo, le piante grosse, hanno tanti rami per poter salire sopra, ci possono stare anche tre, quattro donne; si prendevano a mano, si tirava e andavano dentro una piccola cesta che avevi sopra la pancia, le olive scendevano lì dentro ma molte volte se ne andavano per terra, e allora tu le dovevi raccogliere”.
Lo scritto sopra condiviso, è dato dal lavoro di una cara amica che non c’è più, Marta Iannetti antropologa impegnata nella ricerca e conservazione della memoria delle tradizioni Abruzzesi, in collaborazione con l’associazione Bambun.
A cura di Roberta
Foto luogo del cuore: Cua ‘e Bentu, Sardegna
